ASCOLI PICENO – Toccante. Sincero. Aggiungiamo poche parole al testo di Alberto Orsini, aquilano e caporedattore Abruzzoweb.it, che nella notte del 6 aprile 2009 si trovava ad Ascoli.

“Non c’ero e non me lo perdonerò mai”. Ho scritto così su AbruzzoWeb, il quotidiano online dove lavoro, mettendo su una paginetta word per la prima volta quello che avevo in mente sul terremoto dell’Aquila.

Non c’ero, nella mia città fatta a pezzi dalla terra infuriata, perché quella notte alle 3:32 ero ad Ascoli Piceno, per amore.

Non che questo mi abbia risparmiato di tremare per la scossa, in verità: l’Orco era talmente forte che si è sentito fino lì, le Marche sono state il confine Nord mentre Roma quello Sud, anche se ho smesso di dire ai miei concittadini, quelli che invece c’erano, che il terremoto l’ho sentito anch’io.

Ho smesso quando mi sono reso degli sguardi di bonaria comprensione che mi assecondavano, che mi volevano dire: sì, forse l’avrai sentita un po’ la “botta”, ma non l’hai sentita tanto quanto noi, non l’hai sentita davvero. Li rispetto e alzo le mani.

Ma quella sera al terzo piano di quel palazzo antico di via Pretoriana la stanza ballare l’ho vista davvero, così come ho visto il lampadario che danzava, ho sentito i vetri che tintinnavano. Il mio terremoto è cominciato lì e prima di riabbracciare la mia famiglia sfollata sulla costa abruzzese è dovuto passare ineludibilmente per una tappa intermedia e ancora marchigiana, Urbino.

Ci sono tornato pochi giorni dopo, ma l’ho riabbracciata in concreto tardi, la mia città.

Quando era già estate e il centro era off limits. L’ho pianta ancora più tardi, perché la morte di mio padre, dolore su dolore, e gli sforzi di ricostruzione hanno congelato per un anno, scelta voluta quanto sofferta, la mia visione da cronista delle cose, intento com’ero a tirare su nuove case di legno, a coordinare lavori, a gestire pratiche burocratiche e a fare su e giù con la mia auto dal mare alla montagna e ritorno.

L’Aquila a essere precisi l’ho pianta il 6 aprile 2010, un anno dopo, quindi a freddo.

Quella sera in cui, tra le vie distrutte e silenziose da 12 mesi, si è risentito per una volta, per la prima volta, l’insieme di suoni fatto dal rumore dei passi, dalle chiacchiere della gente, dai sospiri: il “canto” della città, che temevo fosse andato perduto per sempre.

La prima fiaccolata è stata indimenticabile. C’erano talmente tante fiammelle che l’aria era resa opaca dal fumo, mentre l’odore intenso della cera, vagamente ecclesiale, dava una sorta di sacralità quanto mai opportuna alla riunione di 20 mila cittadini rimasti senza città.

“Per la prima volta non si percepisce l’angoscia peggiore, la consapevolezza del silenzio a cinquanta metri da te”, ho scritto sul mio blog che avevo appena aperto ma che da allora è rimasto fermo, perché ho deciso che tutto quello che avrò da scrivere sulla mia città lo scriverò sul giornale. Sono stato anche alla seconda fiaccolata e, pochi giorni fa, anche alla terza. Sono andate più o meno bene, c’era più o meno gente, sono state più o meno politicizzate, se ne può discutere, ma nessuna fiaccolata presente e futura sarà come quella prima. Ora però sono più tranquillo. Ora lo sento sempre, il canto della città. Il mio terremoto finisce qui.

Ora comincia la mia ricostruzione.

 


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