APPIGNANO DEL TRONTO – Dopo l’anteprima marchigiana svoltasi durante il Festival del Cortometraggio Internazionale “Frammenti” il regista padovano Stefano Collizzolli dell’associazione Zalab, prosegue il suo tour con il documentario “Il pane a vita”. Dopo Appignano del Tronto è stato ospite a Bruxelles del Millenium Doc Festival dove ha ricevuto il prestigioso premio “Travailleurs du monde”. In viaggio, tra una pausa e l’altra, lo abbiamo intervistato per approfondire gli aspetti produttivi e tecnici riguardanti il documentario e per conoscere i suoi progetti futuri.

“Il pane vita” racconta la fine di un’epoca, quella del “posto fisso” e del diritto al lavoro. Secondo te sono davvero finite le certezze di un tempo?
“È senza dubbio finita un’epoca, quella in cui la sicurezza del posto di lavoro a vita era legata alla crescita economica continua, alla centralità del manifatturiero ed alla concertazione fra capitale e lavoro. Quel modello economico e sociale non tornerà più, e la comprensibile nostalgia è inutile. Quello che non c’è ancora, ma che è assolutamente necessario, è un modello nuovo, che parta dalla presa di coscienza di ciò che è irripetibile (per esempio, l’Italia non può provare a far ripartire la crescita lanciando un piano di nuove costruzioni, perché abbiamo semplicemente esaurito il suolo) e di ciò che vogliamo salvare: non c’è nessuna ragione, se non l’interesse del capitale, per la quale ad un modo di vivere e lavorare più flessibile e più parco debba corrispondere la scomparsa di tutti i diritti”.

Il film racconta soprattutto il vuoto che subentra nelle vite delle persone che perdono il lavoro, come si può dare una risposta a quel vuoto?
“A livello individuale e sociale c’è un lungo lavoro da fare. Ci sono in Italia territori abbandonati, senza alcuna prospettiva economica, che hanno anche perso un senso del noi, di identità collettiva. Territori che vanno ricostruiti, ristrutturati. Soprattutto per chi, a differenza della mia generazione, è cresciuto nella certezza indiscutibile di un posto di lavoro che passava immutabilmente di madre in figlia, la fine brusca di questo modello ha portato alla luce un vuoto più vasto, in cui si è scoperto che al valore visibile del lavoro, quello di garantire la sussistenza, c’era un immenso valore latente: definire l’identità personale e collettiva, costruire rete e legame sociale, dare un significato alle giornate. Alla ristrutturazione morale se ne accompagna una materiale, fisica: sono spesso territori devastati da un’industrializzazione senza regole, in cui ora fabbriche, capannoni e centri commerciali vuoti restano lì come degli immensi cadaveri in disfacimento, in un ingombro di tristezza. Rispondere a questo vuoto è complesso; un punto di partenza, che, nonostante anni di discorsi in Italia manca ancora, è, almeno, quello di iniziare ad ascoltarlo”.

Il documentario nasce in coproduzione con la Caritas di Bergamo e con la partecipazione di Rai Cinema: quali sono, in particolare, le motivazioni che hanno spinto il mondo cattolico a produrre un film?
“Secondo Don Claudio Visconti, direttore della Caritas bergamasca, che ha aiutato diverse famiglie in difficoltà, attraverso il Fondo famiglia lavoro della diocesi, il problema della crisi e della disoccupazione ha preoccupato e coinvolto direttamente il mondo del volontariato cattolico. Quando si è avuta la consapevolezza che si trattasse ormai di qualcosa di strutturale, si è sentito il bisogno di dare voce alle persone che avevano perso il lavoro e che provavano ad andare avanti.

Tra i produttori c’è anche la fondazione Bernareggi..

“Si, secondo il direttore dell’ente, Don Giuliano Zanchi, occorreva mettere a frutto tutto il bagaglio di conoscenze che si accumulava nel lavoro sociale e che attendeva di essere trasformato in discorso culturale, non etichettato nel ristretto comparto della supplenza caritativa. Grazie alla mediazione della Caritas, all’interno della platea dei beneficiari del Fondo famiglia lavoro ho incontrato molte vicende dure, di sofferenza materiale e morale. D’accordo con i coproduttori non abbiamo però lavorato sul dolore, cercando di strappare pietà al pubblico. Abbiamo invece costruito il film sulla forza e sulla dignità delle storie che abbiamo scelto; e l’abbiamo costruito assieme alle protagoniste, grazie anche al metodo di documentario partecipativo di ZaLab”.

Quali sono stati i tempi di realizzazione del film? Quanto è costato? Con quali mezzi hai girato?
“L’intero percorso è durato un anno e mezzo. La camera è rimasta accesa per un periodo di sei mesi. Il film ha un budget complessivo di 70 mila euro, di cui 30 mila euro di investimento sotto forma di lavoro. I responsabili della fotografia, Luca Caon e Paolo Negro, hanno girato con una coppia di Dlsr ed un meraviglioso set di lenti. Questo ha dato alle immagini un’eccezionale qualità. D’altro canto, una macchina fotografica è evidentemente meno comoda, meno elastica di una telecamera, e questo ha comportato la necessità di girare con maggiore rigore, pensando molto prima di accendere la macchina. Credo che le Dlsr aiutino molto a temperare una certa bulimia dell’immagine figlia della facilità del digitale”.

Nel doc vengono raccontate le storie di tre operaie dell’ex cotonificio Honegger, come hai selezionato i personaggi e come mai non compaiono uomini? Sono in cantiere progetti futuri?
“La scelta dei personaggi, ed il tipo di alleanza che si stabilisce con loro, la pasta della fiducia che si costruisce, sono al centro del lavoro documentario; ed è in parte una scelta reciproca. Bisognerebbe chiedere anche a loro… Per quanto riguarda me, ciò che più mi ha attratto di Liliana, Giovanna e Lara è la loro forza, la loro autoironia, che permette al film di non cadere nel pietismo o nella disperazione cieca, ed allo spettatore di trovare la giusta distanza. In origine, il film metteva in parallelo due fabbriche: una tessile, femminile, di valle, che è quella raccontata in “Il pane a vita”, ed una edile, maschile, di pianura, la ex Cividini poi acquistata da RDB. Abbiamo poi pensato, durante il montaggio, di separare le due vicende per poter dare a ciascuna lo spazio che meritava. Abbiamo cominciato con “Il pane a vita”; ma il progetto di racconto ed intervento sociale assieme a Caritas Bergamasca e Fondazione Bernareggi è un lavoro di lungo periodo, e prima dell’estate uscirà un secondo film”.

A livello internazionale come stanno accogliendo il tuo lavoro?
“Il film ha avuto la sua prima internazionale al Millenium Doc Festival di Bruxelles – ed alla prima uscita ha vinto la sezione competitiva del Festival per cui era stato selezionato. È certo prematuro parlare di accoglienza a livello internazionale, ma sicuramente è un ottimo inizio”.


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