Pubblichiamo una nota di Sua Ecc.za Mons. Giovanni D’Ercole, vescovo di Ascoli Piceno

“Da dieci anni sono presidente d’una polisportiva formata da ragazzi in gran parte Rom e adolescenti più o meno disagiati. L’ultima volta che li ho visti disputare una combattuta partita di calcio, mi ha sorpreso sentire il mister chiedere ai nostri piccoli atleti, sconfitti in finale, educatissimi in campo e ancor più fuori: “Allora, vi siete divertiti oggi?” Era da tempo che non sentivo una domanda del genere fatta su un campo di calcio, specialmente dopo una sconfitta. Mi è tornata in mente questa semplice e logica richiesta d’un allenatore ai suoi atleti, all’indomani dell’eliminazione ingloriosa dell’Italia dai mondiali di calcio, e dei fatti violenti che hanno colpito di recente il calcio italiano. Mi chiedo: le giovani generazioni potranno dare un volto nuovo al calcio, oggi purtroppo così malato? E più in generale, sapranno riscoprire la forza educativa dell’agonismo dello sport?

L’Italia è uscita dai mondiali in modo non del tutto onorevole. Oltre ad essere stata sconfitta in campo, la nostra rappresentativa perde la testa in una scomposta ricerca di responsabilità con pesanti accuse reciproche, mentre sui media divampa la polemica con critiche d’ogni tipo. Quando vincono, i nostri giocatori sono degli eroi nazionali, quando perdono sono bersaglio di accuse e recriminazioni persino ingiuste e ingiuriose. Per una fatale coincidenza la loro sconfitta ha coinciso con la morte di Ciro, questo tifoso del Napoli deceduto dopo lunghi giorni di agonia iniziata ancor prima del fischio d’inizio della finale di Coppa Italia, all’Olimpico di Roma. Tutto questo ha acceso con potenza i riflettori sulla grave malattia di cui soffre lo sport in Italia, e in modo speciale il calcio. Non è lontano dalla verità chi parla di “tradimento” dei valori dello sport. E, proprio perché sono convinto che l’attività sportiva sia una risorsa da valorizzare al meglio, mi permetto di proporre in merito una mia riflessione, con l’intento di contribuire al dibattito che si è aperto, e che non può non mirare a una ripresa degli autentici scopi dello sport, come fucina di campioni e di uomini e donne esemplari anche per condotta civica e morale.

Certamente, fino a quando i riflettori dei media si accenderanno solo sugli ingaggi milionari, sui diritti televisivi che determinano come e quando giocare, fino a quando l’interesse economico e pubblicitario permane la preoccupazione prioritaria, noi adulti avremo la grave responsabilità della morte del vero calcio perché continueremo a mostrare un volto disumanizzato dello sport che tradisce ciò per il quale è nato, che sfrutta i ragazzi dando loro l’illusione di poter giungere a traguardi che probabilmente non realizzeranno mai. Si può chiedere a un ragazzo “ti sei divertito?”, quando in televisione o sui giornali ogni giorno abbiamo l’esempio di chi, per poter vincere, ricorre a trucchi, si dopa, fa emergere se stesso con ogni mezzo sugli altri, morde e accusa il compagno perché ritenuto causa della propria sconfitta? Di fronte a questi fatti, troppo spesso ci si accanisce a discutere su cosa fare per arginare le tifoserie violente o su come potenziare le misure punitive, pensando che la strada sia quella della repressione e non invece quella dell’educazione. Leggi punitive più severe servono a poco se non si affianca una paziente azione educativa. Si discute su nuove strategie, si va alla ricerca di nuovi allenatori o moduli di gioco per conquistare la vittoria. E nessuno ha il coraggio di riconoscere che lo sport oggi è “drogato”, e ha pertanto bisogno di un processo di disintossicazione che porti a riscoprire l’importanza dei campi di gioco di periferia e degli oratori dove un tempo si educavano i bambini e gli adolescenti al rispetto reciproco e alla gioia della vittoria condivisa. Quanti grandi campioni hanno iniziato la loro carriera negli oratori!

Credo che anche in questa nostra città sia importante promuovere uno sport che torni ad essere ciò che per sua natura è: un metodo educativo per ragazzi, probabili futuri campioni, a partire dalle periferie, dalle polisportive amatoriali e dagli oratori. Sono queste palestre sportive, animate dal volontariato di genitori e di educatori a costituire – se si vuole – la linfa vitale per rivitalizzare lo sport. Perché non ci sono più vivai di atleti fra i ragazzi, nelle scuole, nelle parrocchie? Perché conta di più lo sport tifato che quello praticato a ogni livello?

Non è necessario ripartire da zero: ci sono tantissimi volontari che dedicano il proprio tempo e le proprie risorse, anche economiche, per educare i giovani alla legalità, al senso di squadra, alla condivisione anche della sconfitta, al saper guadagnare ciò che si desidera pagando di persona, allo spirito di sacrificio necessario per il raggiungimento degli obiettivi, al sapersi confrontare con il proprio limite e a fermarsi di fronte ad esso. Il problema è che la loro paziente opera educativa e formativa non fa notizia in una logica di mercato. Ma è giunto il momento di far sentire la loro voce. Ci sono allenatori e responsabili di team sportivi non solo di calcio che, nonostante il lavoro e le occupazioni familiari, sono i primi ad arrivare all’allenamento, non solo per preparare il materiale ma per attendere i loro ragazzi, salutarli uno per uno, domandar loro com’è andata la scuola con una parola d’incoraggiamento per ciascuno. E’ questa la strada per creare vivai di campioni, che diventino modelli per la gioventù.

Purtroppo la Nazionale di calcio ai mondiali ha mostrato proprio la carenza di questi valori (e non è pensabile che possa vincere una squadra composta di tutti “fuoriclasse” senza un vero affiatamento reciproco creatosi dall’aver percorso insieme un itinerario formativo). Come pure, le assurde immagini dell’aggressione a Ciro, un’altra icona della violenza negli e fuori gli stadi, sono la chiara denuncia del fallimento d’uno sport diventato irrazionale antagonismo incapace di capire che in fondo si tratta d’un gioco e che allo stadio ci si va per divertirsi con tifoserie capaci di rispetto e di condivisione, di goliardia e di amicizia. Lo stadio non può diventare un campo di combattimento con feriti e morti a ogni partita.

E allora, che fare? Come vescovo mi rivolgo ai credenti e a tutti coloro che hanno a cuore il futuro delle nuove generazioni. Noi siamo pronti a scendere in campo per testimoniare questo nuovo modo di concepire e di praticare lo sport. In campo però non si vince da soli. La collaborazione della nostra Diocesi con la Società Ascoli Picchio 1898 attraverso la figura dell’assistente spirituale, la presenza nell’ambito della Diocesi di un ufficio che si occupa di sport sono importanti segnali di attenzione verso chi s’impegna per educare a scendere in campo insieme. Ma non basta. Occorre il coinvolgimento delle famiglie, delle parrocchie, della scuola, di tutti i gruppi e società sportive e delle palestre, delle associazioni di volontariato: solo se ci si allea tutti insieme, si può ridare allo sport, a ogni disciplina sportiva, il tono educativo per formare sportivi all’altezza delle loro responsabilità dentro e fuori dei terreni di gioco e delle piste di atletica. Attraverso il lavoro di tanti volontari vogliamo mostrare un volto nuovo dello sport capace di dare più valore alla persona che al risultato; uno sport che prepara atleti pronti a scendere in campo con il desiderio di vincere e l’impegno di dare il meglio di se’, di conquistare la vittoria non da soli ma con i compagni di équipe, di accettare la sconfitta e trasformarla in trampolino per risultati migliori; uno sport in grado di dare spazio a tutti perché tutti sono importanti, sostenendo i compagni di squadra soprattutto quando sbagliano, e decisi ad agire con lealtà sempre, in campo e ancor più nella vita.

 


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