Oltre cinquantamila copie di tiratura in sole quattordici settimane: l’ultimo libro del collettivo bolognese Wu Ming ha lasciato il segno. Questo perché, ci preme dirlo, “L’Armata dei Sonnambuli” non è solo un romanzo storico sulla Rivoluzione francese, ma è anche il racconto di coloro che non hanno avuto voce, e che hanno vissuto sulla loro pelle quel grande Evento-Teatro che è stata la Rivoluzione.

Dalla spettacolarizzazione della politica all’incredibile empasse giacobina di non poter applicare fino in fondo la Costituzione, sino all’involuzione e al ribaltamento della rivoluzione su sé stessa. Non si fanno sconti a nessuno e il quadro che ne esce fuori è troppo vario ed eterogeneo per riuscire ad inquadrare il romanzo dentro i confini di una storia a senso unico.

La complessità va raccontata e va accettata. Dall’interno a spingere i processi e a subirli: il popolo dei sanculotti, i mesmeristi, l’istrionico Scaramouche, un teatrante bolognese che si ritrova a fare strage di controrivoluzionari “muschiatini” e Marie Nozière, la cittadina del foborgo di Sant’Antonio, un personaggio che con la sua forza e la sua fragilità, riesce a parlare di questioni di genere e di partecipazione politica attiva nella Francia di fine ‘700. Le sue cadute e il suo riscatto ce la fanno amare profondamente. Ci ricordano che qualsiasi discorso politico e culturale deve fare i conti con la Rivoluzione Francese, è in quel contesto infatti che si parla, per la prima volta nella storia d’Europa, di destra e di sinistra e del popolo al governo. La democrazia nasce in quegli anni e dopo poco subirà una battuta di arresto. I nobili e i borghesi controrivoluzionari, e il loro braccio armato, la teppa della “Gioventù Dorata”, provano a sovvertire il processo che si è innescato. Questi ultimi sono figli di artigiani, commercianti e funzionari, una “scanculotteria dei ricchi” che rimproverava ai padri di aver creduto agli ideali rivoluzionari. Tutti delusi, ora, tutti pronti alla reazione. Ma intanto un discorso sull’uomo, sulla donna e sui diritti civili è iniziato, un percorso non lineare, tra passi avanti e salti all’indietro, che giunge sino ai nostri tempi e che non sarebbe stato possibile avviare senza il Terrore rivoluzionario.

Dall’incontro amichevole con Wu Ming 2, una lunga intervista che per ragioni editoriali dividerò in due parti. Per il momento, un focus sul libro e sulle tematiche affrontate. Viva Marie Nozière! Viva Scaramouche!

Con “L’Armata dei Sonnambuli” avete esplorato il periodo rivoluzionario raccontandolo dal basso e da diversi punti di vista: il popolo parigino dei sanculotti, le cittadine rivoluzionarie, i mesmeristi, ecc… Perché guardare alla storia e ai fatti da prospettive non dominanti? 

Nel momento in cui si scrive un romanzo storico, di fatto, si narra un periodo che è già stato raccontato. La rivoluzione francese è stata molto mappata dalla storiografia e ha avuto grande spazio anche in narrativa. Di conseguenza, per raccontarla di nuovo, si deve avere una prospettiva diversa, occorrono parole nuove e una trama differente, oltre ad un punto di vista differente sul periodo storico con il quale ci si vuole confrontare.

“L’Armata dei Sonnambuli” piazza alcune cariche esplosive, finzionali e fittizie dentro alla Rivoluzione francese. Abbiamo elaborato in provetta quattro personaggi che poi, come se fossero dei reagenti, abbiamo versato dentro alla miscela, già di per sé esplosiva, per vedere la reazione in quel contesto. Uno degli ingredienti che abbiamo messo nella provetta è lo sguardo obliquo, minoritario, marginale. Si dice che la storia viene scritta dai vincitori e questo è lo stereotipo che ci viene consegnato e che, spesso, è quello che compiace la classe dominante che condivide determinati interessi soprattutto rispetto alla storiografia.

Lo sguardo marginale è uno strumento che permette di raccontare quella vicenda in una maniera nuova, di sgretolare lo stereotipo e provare a sostituire ad esso una costruzione diversa e meno monolitica. Uno degli obiettivi del romanzo storico era quello di non sostituire al modello convenzionale del racconto della Rivoluzione, un altro monumento, che di solito erige la classe dominante, ma di mettere insieme i pezzi sgretolati dello stereotipo in una costruzione che faccia vedere le proprie linee di frattura e permetta al lettore di giocarci e di rimontarle a piacimento.

Linguisticamente il libro è sorprendente. Mi riferisco in particolare alla resa della parlata sanculotta, “soquanti”, “sbrisga” “gecco” “aristocrassi” e “saloppe”, per fare alcuni esempi. In generale come avete lavorato sulla lingua del romanzo?

Qui si fa riferimento alla lingua del popolo di Parigi, quella che noi abbiamo definito vox plebis, e che è nata da un’esigenza narrativa. Noi difficilmente facciamo un lavoro sulla lingua fine a sé stesso e che non vada nella direzione di dire una cosa in maniera nuova e che non sia finalizzato a raccontare meglio. In questo caso avevamo l’esigenza di differenziare i modi di parlare il francese, all’interno della nostra trama. Ci sono orazioni fatte dai deputati della Convenzione Marat, Robespierre, che dovevano risuonare in maniera differente rispetto alla voce del popolo.

Non è una questione di realismo, anche perché non scrivendo in francese questo non era possibile, dovevamo rendere invece quella differenza in italiano. Si trattava di una questione narrativa. Soltanto diversificando il popolo di Parigi, anche dal punto di vista linguistico, siamo riusciti a farne un personaggio. In sostanza il popolo è il quinto personaggio protagonista del romanzo. Parla alla seconda persona plurale ed è una specie di coro greco, che a differenza di quello della tragedia greca è spesso ubriaco e mai prende posizione per il potere costituito. Il coro greco rappresentava nella tragedia la voce della divinità, il punto di vista degli dei e quindi il punto di vista dell’ordine morale, mentre in questo caso si tratta di un coro con una finalità differente.

Dal punto di vista del linguaggio, siamo partiti studiandoci modi di dire del francese di allora, in particolare attraverso un giornale popolare “Le Père Duchesne” di Jacques-René Hébert. Abbiamo tradotto in maniera letterale delle espressioni. Per esempio, se devo dire che mi disinteresso altamente di una questione, nel francese di allora si diceva: Je m’en fous comme de l’an 40, cioè “Me ne fotto come dell’anno ’40”, è un’espressione che in francese si usa tuttora, però tradotta in italiano ci fa capire che siamo di fronte ad una lingua astrusa. Basta mettere questa espressione nel giusto contesto per farsi intendere dal lettore. Ad esempio per dire di: metterci del bello e del buono per fare una cosa; nel francese di allora si diceva: “Metterci del verde e del secco”, perché quando la legna secca finisce, se hai bisogno di scaldarti metti anche quella verde. Se il popolo pronuncia questa espressione significa che le abbiamo provate tutte per raggiungere quella cosa.

Abbiamo anche trovato un dizionario del Père Duchesne collezionato da uno storico francese, Michel Biard, che si intitola “Parlez-vous sans culottes?” e da lì abbiamo attinto a piene mani. Abbiamo tradotto in italiano alcune espressioni del francese mantenendo un’assonanza con la lingua originaria o creando dei neologismi o forzando l’italiano, per es. maison (it. casa) l’abbiamo tradotta con “magione”, oppure nel caso di “garzo” che vuol dire “ragazzo” nella lingua del popolo di Parigi, viene direttamente da garcon (it. garzone). “Gecco” viene dal francese Jacques, che essendo un nome molto diffuso era un modo di dire tizio, uno qualsiasi. “Saloppa” viene da saloppe che vuol dire puttana anche nel francese di oggi.

Infine, ci siamo accorti che la lingua aveva qualcosa di artificiale, avevamo bisogno di “scaldarla” per poter esprimere le emozioni del popolo e le nostre. Quando il popolo chiede giustizia, uguaglianza, libertà sono sentimenti che noi stessi chiediamo e in questo senso il lavoro sul romanzo storico non è distaccato né di parodia, non è un lavoro metalinguistico sopra dei testi. In realtà noi possiamo esperire la storia anche attraverso le nostre stesse emozioni e i nostri sentimenti. Per esprimerci in maniera emotiva abbiamo deciso di infarcire il tipo di idioma che avevamo creato con prestiti dai dialetti che parliamo e che abbiamo orecchiato fin da bambini. All’ interno del collettivo i dialetti rappresentati sono: il ferrarese e il bolognese, di origine, dunque, gallo-italica; per cui ci siamo detti che l’operazione non era poi eccessivamente ardita. Ecco allora “soquanti” (alcuni, diversi), e “sbrisga” (è un modo di rafforzare la negazione che ricorda il brisa bolognese). Sono dei prestiti italianizzati dai dialetti che si inseriscono bene all’interno della lingua del popolo.

Il libro mette in scena diversi conflitti, in particolare con la storia di Marie Nozière e delle sue vicende private e pubbliche, si pone l’attenzione sulla questione di genere e sulla partecipazione delle donne alla vita politica. Che tipo di importanza ebbero nel processo rivoluzionario? Ad un certo punto si erano spinte troppo oltre?

Al di là di quei pochi episodi che vengono ricordati nei libri di storia, come la marcia su Versailles per convincere il re a rimanere a Parigi, le donne erano per strada a manifestare e ad agire in maniera politica tutti i giorni, erano nei quartieri, nelle Sezioni e nella Convenzione ed erano molto influenti.

Il tipo di discorso politico fatto dalle donne durante la Rivoluzione si può dividere in due ambiti: quello materiale e quello dei diritti. Sul piano materiale, le donne chiedevano un prezzo massimo sui beni di prima necessità (pane, farina, candele, sapone), ovvero che questi beni non si potessero vendere sopra un certo prezzo. Quando i bottegai vendevano ad un prezzo eccessivo le donne facevano delle vere e proprie “spese proletarie”: minacciavano il commerciante con armi non convenzionali, forbici, siringhe piene di acqua sporca, bastoni, e lo costringevano a vendere al prezzo che decidevano loro, di solito non saccheggiando i negozi, ma nella maggior parte dei casi, imponevano un prezzo giusto. Chiedevano anche la pena di morte per gli “accaparratori”, per coloro che immagazzinavano i beni di prima necessità per farne lievitare il prezzo.

Due provvedimenti che Robespierre, Marat, Saint-Just, coloro che siamo abituati a considerare dalla narrazione dominante estremisti, erano invece restii a concedere. Essi ritenevano che un prezzo massimo, stabilito per decreto, fosse una limitazione alla libertà del commercio, e quindi al principio della liberté; sostenevano che ciascuno dovesse essere libero di mettere il prezzo che riteneva giusto, come quando si trattava di grano prodotto da un agricoltore sulla sua proprietà, visto che la Costituzione sanciva il diritto alla proprietà privata; quindi posizioni tutt’altro che estremiste. Inoltre essi resistevano anche all’idea della pena di morte per punire i monopolisti.

C’erano anche donne che si spingevano più in là di queste richieste, dicendo che tutte le merci dovevano essere vendute con prezzi stabiliti dallo Stato. Ciò perché se si era dichiarata in Costituzione l’égalité, l’uguaglianza, allora non doveva essere possibile soltanto avere un accesso ai beni di prima necessità. Sia il ricco che il povero dovevano poter comprare la farina, ma alcune donne dicevano: “Vogliamo anche lo zucchero!”, prodotto che veniva considerato un bene di lusso. Le donne volevano però poterne godere. Se c’è davvero uguaglianza allora non doveva essere consentito solo a un ricco aristocratico addolcire le bevande. L’uguaglianza nell’accesso ai piaceri è una rivendicazione politica molto radicale.

Le donne andavano anche alla Convenzione a fare le proprie richieste oppure facevano il tifo per un oratore o per l’altro. Alcune, di estrazione decisamente più borghese, si preoccupavano della questione dei diritti, criticavano la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, affermando che essa non contemplava anche le donne e quindi chiedevano venisse integrata con una Dichiarazione della Donna e della Cittadina. In effetti, le donne, non godevano di una piena cittadinanza, non potevano eleggere i rappresentanti né potevano sedere alla Convenzione come deputate. Si arrivava all’assurdo per cui un individuo che vivesse e lavorasse in Francia, da almeno un anno e avesse compiuto 21 anni, se sposava una donna francese diventava un cittadino a tutti gli effetti, poteva votare ed essere eletto, cosa che invece sua moglie non poteva fare.

Queste donne lottavano anche per il diritto di portare le armi, e di fatto anche loro difendono il diritto al piacere e alla propria autonomia. Per questo si vestivano da uomini o da amazzoni, come si diceva allora, ed erano malviste. I due gruppi di donne descritti finora difficilmente entravano in contatto. A quelle dei sobborghi che si preoccupavano dei prezzi del pane e dell’accaparramento delle sostanze, non andava a genio che ci si dovesse vestire da uomini né esse ambivano a portare le armi. Al fronte, secondo loro, ci dovevano andare gli uomini. Dall’altra parte le donne che si preoccupavano dei diritti avevano la pancia più piena.

Ci fu però un club, la Società delle Repubblicane Rivoluzionarie, che riuscì a saldare, sulla base del comune interesse di genere, i due tipi di donne finora descritti, quindi andando oltre le differenze di classe. Questa operazione fu considerata rivoluzionaria e molto pericolosa, e per il potere giacobino, fu uno spingersi troppo oltre. I rivoluzionari non erano pronti a rivoluzionare anche se stessi, quindi il loro ruolo di maschi. Certo, la Rivoluzione aveva portato dei cambiamenti anche nel rapporto tra i sessi, per esempio, il divorzio; e sicuramente c’era stato un cambiamento per la condizione femminile, ma più in là non ci si sapeva spingere.

I giacobini imposero la chiusura di tutti i clubs femminili nel novembre del 1793 con il preciso intento di colpire la Società delle Repubblicane Rivoluzionarie. Da allora le donne non poterono riunirsi in società di donne, potevano riunirsi in gruppi comuni insieme ad altri uomini o continuare a fare il tifo sulle gradinate o portare petizioni alla Convenzione ma non più riunirsi sulla base di un comune interesse di genere.

La nostra protagonista femminile Marie Nozière è una delle repubblicane rivoluzionarie, è una di quelle che parte dai sobborghi, dalle rivolte per il pane e per il maximum sui prezzi e arriva a intrecciare un rapporto con donne molto diverse da lei, con le quali però intuisce si può costruire un fronte condiviso.

Il viaggio del mesmerista Orphée D’Amblanc in Alvernia riprende degli elementi di narrativa di genere, un lungo racconto picaresco a sfondo horror che ci allontana spazialmente da Parigi e ci porta ad esplorare territori rurali arcaici, quasi “ai confini della realtà” come titolava la nota serie tv. Rousseau non avrebbe apprezzato forse…

Qualcuno ha detto che l’Alvernia è il luogo dei nostri “X files”, per citare un’altra serie tv. Questo spostamento ad un certo punto dello scenario seguendo Orphée D’Amblanc, uno dei protagonisti, in una sua indagine in provincia, è stato dettato da due esigenze.

Da un lato quella di scardinare sempre lo stereotipo. Mi spiego, la Rivoluzione francese ci viene raccontata sempre ambientata a Parigi o in poche altre città come Lione, Marsiglia, Bordeax e poi la Vandea dove ci fu una sollevazione molto importante da parte dei controrivoluzionari. Ma la rivoluzione ebbe effetti diversi a seconda delle zone della Francia. L’Alvernia era davvero considerata una provincia remota, collocata nel Massiccio Centrale, si parlava una lingua di origine occitana molto differente da quella di Parigi. Sul versante linguistico, abbiamo quindi cercato di rendere questa diversità. Per far parlare i nostri personaggi abbiamo utilizzato un Dizionario di Alverniate, essi parlano un alverniate italianizzato che come risultato si avvicina al piemontese ed in effetti il Dizionario consultato del 1800 è in Francese- Alverniate Piemontese – Italiano.

L’altra esigenza era di creare un contesto adatto per l’indagine del dottor D’amblanc nel “cuore di tenebra” del mesmerismo. D’Amblanc deve scoprire che il magnetismo animale non è solo una terapia e un’energia positiva ma che nasconde un lato oscuro della forza e per questo scopo ci serviva un’ambientazione adatta. Una provincia remota con un lungo viaggio da fare poteva essere il giusto setting. Abbiamo anche attinto agli stilemi del genere horror per descrivere questa discesa agli inferi, agli inferi anche di sé stesso.

(a breve la seconda parte dell’intervista)


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