La seconda parte dell’intervista a Wu Ming 2 si addentra in quella che potremmo definire “l’officina creativa” del collettivo di scrittori bolognesi Wu Ming. Si cerca di indagare il lavoro di studio e di documentazione approfondendo la modalità con la quale si piega l’archivio alle esigenze della narrazione. Si affronta il tema della scrittura a più mani e delle fasi di lavoro del gruppo, dalla scalettatura di un testo all’aspetto decisionale. Il rischio è sempre quello temuto da tutti gli autori: l’uso di facili soluzioni o banalità, e allora ecco che una strategia efficace risulta quella di declinare il dibattito ad una “mediazione al rialzo”. Alla fine del processo, l’autore diventa una pluralità e un soggetto unico a tal punto che non si distinguono più i contributi dei singoli. Infine qualche novità e idea per il futuro: tra l’archivio e la creazione di mondi, la sintesi o la “terra di mezzo” per il momento sarà un libro destinato ad una fascia di lettori più piccoli. Parola di Wu Ming.

(La prima parte dell’intervista “Sgretoliamo lo stereotipo” potete recuperarla qui  http://www.picenooggi.it/2014/07/31/25533/sgretoliamo-lo-stereotipo-wu-ming-una-intervista-su-larmata-dei-sonnambuli/)

“L’Armata dei Sonnambuli”, come abbiamo già avuto modo di scoprire nella prima parte dell’intervista, è frutto di un elaborato lavoro d’archivio, negli ultimi mesi state anche realizzando una serie di laboratori di “fantarchivio”.  In che modo maneggiate i materiali che trovate e come si sviluppa la finzione?

Noi siamo abituati a partire dai documenti e dalle fonti, anche primarie, per sviluppare le nostre storie, ovviamente isolando noccioli narrativi e diciamo “equalizzando verso l’alto” come se avessimo in mano dei potenziometri di un mixer, gli elementi narrativi già contenuti dentro l’archivio. È come se l’archivio contenesse potenzialmente diversi spunti narrativi che possono essere piegati e direzionati verso la finzione e bisogna imparare a riconoscerli. Questo implica di sottoporre l’archivio a delle trasformazioni narrative che noi chiamiamo “termodinamica della fantasia“, trasformazioni che riguardano i personaggi, i punti di vista, l’ambientazione, che riguardano le simbologie, gli oggetti, l’attacco e il finale di ciò che si vuole raccontare.

Negli archivi abbiamo trovato molto materiale riguardo il mesmerismo, abbiamo studiato cos’era la pratica terapeutica e ci siamo resi conto che, quella che veniva bollata già nel ‘700 come pseudoscienza, poteva essere un punto di vista strambo e obliquo sulla rivoluzione. Sempre l’archivio ci restituiva il dato, secondo il quale, la moda mesmerista non si diffuse durante la rivoluzione ma proprio in quel periodo entra “in sonno” per molti motivi.

A noi invece interessava avere una figura che fosse un rivoluzionario convinto e anche un mesmerista, questa personalità nell’archivio non c’era e storicamente forse non è esistita. Cercavamo un mesmerista attivo giacobino che non dovesse nascondere le proprie pratiche ma che fosse accettato dall’establishment rivoluzionario. Avendo bisogno di un personaggio del genere lo abbiamo costruito. Abbiamo perciò utilizzato degli elementi dell’archivio per costruire un personaggio che non c’era. Questo, può essere un esempio interessante di come si può lavorare narrativamente introducendo elementi di finzione a partire da un documento storico.

I laboratori di “fantarchivio” che stiamo portando in giro per l’Italia, non solo a Bologna, cercano di ragionare su questo. Molto spesso ci confrontiamo con archivi di vario genere, intuiamo che in un documento è nascosta una storia, come un fossile nascosto dentro una montagna, a quel punto bisogna scoprire gli attrezzi che aiutano a tirare fuori la storia, pulirla e raccontarla. Altrimenti quella storia rimane lì, in un archivio in cui sono pochi a poterla conoscere mentre raccontandola e facendola uscire all’esterno le si permette di infettare più cervelli.

Il V Atto è la vera rivoluzione del vostro ultimo romanzo, a questo punto tutti i nodi sembrano venire al pettine. Alcune zone d’ombra si illuminano ma la sensazione è straniante, anche le fonti sembrano prendere una piega imprevedibile. Il lettore – se non lo ha fatto prima – ora sembra essere stimolato ad ampliare la ricerca storica.

Il V Atto è effettivamente la parte più rivoluzionaria del romanzo, è quella che allude anche a ciò che vorremmo fare d’ora in avanti, perché in qualche modo essa si distacca dal romanzo e dalla nostra pratica ventennale di produzione di romanzi storici. Fin da “Asce di guerra” (2000), il nostro secondo romanzo, e poi con sempre maggiore attenzione e acribia negli ultimi romanzi solisti, abbiamo sempre aggiunto in fondo ai romanzi dei titoli di coda che specificassero quali fonti avevamo utilizzato per scrivere il libro. Siamo arrivati da un’indicazione generica a 50 pagine di titoli di coda per i nostri lavori solisti, ovvero scritti a quattro mani con membri non del collettivo come “Timira” e “Point Lenana”, dove capitolo per capitolo noi andiamo a sviscerare le fonti abbiamo usato. Le fonti non sono solo storiche, magari una frase l’abbiamo ascoltata da un nostro amico o da un politico e noi rendiamo conto anche di questi contributi.

Tutto ciò per permettere al lettore di guardare alla costruzione del romanzo come a una struttura fatta con i mattoncini di legno che io posso eventualmente rimontare a mio piacimento, il lettore in questo modo ha gli strumenti per smontare e rimontare quella costruzione. Questi titoli di coda ci costavano ormai molto lavoro. Se lo avessimo dovuto fare per “L’Armata dei Sonnambuli” ci sarebbero voluti altri due mesi, avremmo prodotto circa 100 pagine su un libro di 800 pagine, il che avrebbe fatto lievitare il prezzo e probabilmente avrebbe respinto molti lettori.

Ecco perché li abbiamo portati addirittura dentro il romanzo, costruendoli narrativamente come il finale di”American Graffiti”, come una disamina delle fonti che ci sono servite per costruire ogni personaggio e poi come quel personaggio è andato a finire, cosa gli è successo oltre la fine del romanzo. Questo era il proposito. Lo abbiamo titolato “Come va a finire”, in questo modo ci siamo detti: tutti lo leggeranno perché è una parte del romanzo e difficilmente verrà saltata.

Portare questo apparato fondativo dentro il romanzo stesso ha fatto sì che la finzione si infiltrasse e imbevesse come una spugna quei titoli di coda, e di conseguenza che non fosse più possibile, al loro interno, distinguere fonti reali da fonti immaginate. In quell’Atto del romanzo dovevamo rendere conto anche della costruzione dei personaggi fittizi ma volevamo farlo con quella modalità, indicare che fonti avevamo utilizzato e i loro sviluppi futuri come per i personaggi reali. Li abbiamo descritti in una maniera “borgesianamente” indistinguibile da quella dei personaggi fittizi.

È una dimostrazione in più del fatto che un sistema difficilmente può fondare sé stesso. Kurt Gödel ha dimostrato che: un sistema sufficientemente complesso da contenere l’aritmetica, non può dimostrare la propria stessa coerenza ma ha bisogno di un meta linguaggio per verificare la propria coerenza. Non è quindi completo perché al suo interno non riesce a rappresentare una stringa di simboli che dimostri la sua stessa coerenza e quindi un’espressione vera. Si avvicina al principio di indeterminazione di Heisenberg o a quello sulla ricorsività dei sistemi. Se tu provi a costruire un sistema ma quell’elemento fondativo, che ne dimostra la coerenza, lo piazzi dentro al sistema stesso e pretendi di trovarlo dentro al sistema stesso il serpente in qualche modo si morde la coda: questa dimostrazione finisce per non essere possibile. 

I nostri titoli di coda da elemento fondativo, che facevano vedere al lettore come avessimo preso tutti quelle informazioni nell’archivio, ha perso quella funzione ma ne ha acquisito un’altra, di maggiore invito alla ricerca, per il lettore che la volesse fare. Nel momento in cui il lettore capisce che ci sono delle dissonanze, che non tutto può essere vero di quello che viene raccontato, può sforzarsi di andare a vedere quali siano le fonti reali e quali no, può farsi domande interessanti su quanto sia possibile poi tracciare una vera linea di demarcazione tra verità e finzione, tra vero e verosimile, all’interno di un romanzo, visto che siamo ancora dentro l’Atto V.

Come si scrive un romanzo a più mani? Esiste una divisione dei compiti? Come arrivate a compiere delle scelte?

La divisione dei compiti può esistere nella fase di ricerca. Per quanto riguarda “L’Armata dei Sonnambuli”, io per esempio conosco bene il francese e sono stato delegato alla traduzione, ad uso di tutti gli altri, dei materiali d’archivio un po’ più ostici scritti in francese settecentesco. Altri, invece, hanno letto saggi scritti in italiano o inglese o nel francese odierno, a proposito di aspetti che volevamo illuminare, quali la partecipazione femminile alla rivoluzione francese, il mesmerismo, il teatro, ecc… Dopodiché la divisione dei compiti finisce qui, nel senso che nella fase di scrittura tutti fanno tutto, non ci dividiamo i personaggi, non si deve pensare che siccome ci sono quattro protagonisti o cinque se includiamo il popolo, ognuno di noi ne abbia curato uno. Non funziona così. Se ognuno di noi curasse un personaggio si innamorerebbe del personaggio, lo riterrebbe la sua pedina dentro al romanzo e sarebbe molto difficile poi per gli altri intervenire sulle sue scelte e finirebbe per scegliere lui, che cosa far fare a questo suo figlio.

Di fatto tutta la scalettatura del romanzo viene fatta collettivamente e sempre insieme si decide che cosa deve accadere, poi però c’è un singolo che prepara una prima stesura dei vari capitoli. Queste prime stesure vengono ridiscusse e rielaborate e nella stragrande maggioranza dei casi consegnate ad un altro che non ha prodotto quella stesura e che integra i cambiamenti che sono stati decisi, molte volte riscrivendo il capitolo da capo. Alla fine nemmeno noi siamo in grado di capire chi ha scritto cosa.

Ci ricordiamo al massimo di aver prodotto la prima versione di quel capitolo che poi è passato per le mani di tutti in maniera molto considerevole e poi per un editing collettivo finale, in cui rileggiamo tutto il libro dall’inizio alla fine, ad alta voce, e andiamo a modificare le scelte linguistiche, l’ordine delle parole, gli aggettivi, la punteggiatura, tutti quanti insieme. Alla fine non ha più senso dire quel capitolo l’ho scritto io.

Per quanto riguarda le scelte, abbiamo imparato a litigare, a dirci le cose tranquillamente, sicuri che ognuno tenda al bene del romanzo, di questo ci fidiamo. Di solito cerchiamo di evitare l’individuazione di un massimo comune denominatore tra diverse idee. Se per una tal scena ci sono diverse soluzioni narrative che vengono proposte, evitiamo sempre di individuare cosa c’è di comune tra le proposte e tenerlo. Questo perché molto spesso si tratta di un nocciolo che in realtà risulta banale, risulta dalla eliminazione di ciò che di singolare e interessante c’era in ciascuna idea e di conseguenza poi è qualcosa che non scalda il cuore a nessuno,

Se discutendo di un capitolo ci sono tre proposte diverse, le facciamo e ne discutiamo, poi il capitolo viene consegnato ad uno di noi che deve cercare di trovare una quarta soluzione, diversa dalle tre che sono state proposte, che tenga conto della discussione che abbiamo fatto e che la incanali in quella che noi chiamiamo una “mediazione al rialzo”, una sorta di massimo comune multiplo. Qualcosa che tenga insieme le caratteristiche particolari proposte, che ne faccia tesoro ma che però proponga un’ ulteriore soluzione.

“L’Armata dei Sonnambuli” è il punto d’arrivo del romanzo storico che era iniziato con “Q” nel 1999, quali sono i progetti narrativi futuri del collettivo? Cosa dobbiamo aspettarci?

Noi con questo romanzo sentiamo di aver raggiunto il nostro apice rispetto alla costruzione dei romanzi storici così concepiti. Da qui in avanti abbiamo la sensazione di doverci ripetere, poi se ci verranno nuove idee magari ci ricrederemo. Per il momento sentiamo di aver raggiunto l’obiettivo, mentre ci sono altre modalità, di raccontare il passato ma anche la contemporaneità e di aver a che fare con gli archivi, che abbiamo sperimentato meno.

All’incrocio tra saggistica e narrativa, tra archivio e finzione, tra invenzione narrativa e documenti, c’è un modo di mescolare questi elementi diverso da come lo fa il romanzo storico, più nella direzione di quelli che noi abbiamo chiamato degli “oggetti narrativi non identificati”, come “Asce di guerra”, “Timira” o “Point Lenana”. In quell’ambito sentiamo di avere molta strada da fare.

Alcuni di noi si stanno interessando a questa linea di confine tra il saggio storico e la narrazione che si avvicina di più all’archivio, all’inchiesta, al giornalismo, ad altri modi di indagare la realtà, mentre altri si stanno interessando all’invenzione di mondi, alla narrazione tolkeniana. Vogliamo, in qualche modo, tenere insieme queste due direzioni che i singoli stanno prendendo.

Nel lavoro collettivo sentiamo che potrebbe essere stimolante cercare di tenere insieme queste due anime. Una che guarda alla creazione di mondi fantastici e una che guarda all’esplorazione narrativa di un mondo che già esiste, l’archivio. Non sappiamo cosa dobbiamo aspettarci, fortunatamente non è una reazione chimica della quale possiamo prevedere il risultato. Anche noi partiamo in esplorazione.

Una delle direzioni sulla quale stiamo lavorando è una raccolta di racconti per bambini tra i 6 e i 10 anni, ispirata a mappe di luoghi della Terra, a storie tra leggenda e cronaca. Cerchiamo di produrre un oggetto narrativo di invenzione però anche legato all’archivio, alle mappe e per un target infantile. Questa è la nostra prossima sfida per ora. E poi altre ne verranno.


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