dal settimanale Riviera Oggi Estate numero 876 del 25 giugno

ASCOLI PICENO – Per chi l’ha conosciuto in questi nove mesi da allenatore dell’Ascoli resta difficile immaginarselo in puro relax, a godersi il mare e il sole della Sardegna, senza un Moretti qualsiasi da sgridare. Eppure, Fabrizio Castori, l’allenatore dell’impresa storica di salvarsi con meno sei punti, ha staccato la spina. Anche se poi lui è il primo a negarlo: “Ma che scherzi? Io non stacco mai la spina!”.

Raggiunto al telefono (martedì 21 giugno, ndr) a Golfo Aranci, il tecnico di San Severino tra una battuta e l’altra ripercorre le tappe, svela qualche segreto, ad esempio come è nato il “suo” Ascoli, e fa capire che con la testa è già al raduno della prossima stagione.
Mister, si sta godendo queste meritate vacanze finalmente…
“Diciamo di sì. Una settimana al mare ci voleva, ma poi dobbiamo riattaccare subito la spina, anche se, in realtà, io non la stacco mai”.
Allora le chiediamo subito se sta seguendo il mercato della squadra. Polenta si sta dando da fare, lei ha già in mente che Ascoli sarà?
“In questi giorni si trattano ancora le comproprietà, per il resto è ancora presto capire chi resta e chi parte. Basta che alla fine arrivino i giocatori giusti. La mia richiesta è una sola e generale: preferisco giocatori giovani e motivati. Tutti sanno che lavoro bene con loro. La piazza di Ascoli deve essere un trampolino di lancio”.
I primi accordi dicono: Moretti al Catania con Gazzola che resta in bianconero. Cosa si aspetta dalle altre comproprietà?
“Credo che i giocatori in prestito, come Feczesin, Juan Antonio e Calderoni, tornino tutti alla loro base. Così come credo che Lupoli preferisca partire”.
E’ vero che ha richiesto esplicitamente Cacia?
“No. Anche perché non è, come tutti pensano, del Piacenza, ma è in comproprietà col Lecce. Ed è difficile averlo. Ho solo detto che in un preciso elenco di attaccanti lui è quello che preferisco”.
Riguardo Calderoni è possibile che ritorni ad Ascoli?
“E’ un giocatore che apprezzo, come tutti quelli con cui abbiamo fatto grandi cose quest’anno. Ma ripeto, è ancora presto”.
Torniamo allora indietro. Parliamo di quando è diventato allenatore della sua squadra del cuore. Ci credeva davvero nella salvezza? Cosa non andava?
“Se non ci avessi creduto non ci sarei venuto. La squadra l’avevo vista giocare due volte: con l’Albinoleffe, in cui vinse 2-1, e con il Livorno, quando prese 5 gol. Ecco, in queste due partite capii che quel tipo di squadra non poteva schierarsi con il 4-4-2”.
Ci spieghi la metamorfosi.
“Per un insieme di motivi legati alle caratteristiche dei giocatori, la squadra necessitava di un maggiore equilibrio. Così ho deciso di cambiare: ho voluto una linea difensiva più stretta, ma soprattutto, un centromediano metodista davanti alla difesa, come Pederzoli, accompagnato da due giocatori di corsa come Di Donato e Moretti. Ecco, la linea a 3 è quella che faceva al caso loro”.
Ovvero?
“Sempre per come vedo io il calcio, tutti e tre non avrebbero potuto reggere in fase di non possesso un centrocampo a 2, sia perché Pederzoli e Di Donato, come gioco e struttura fisica, si assomigliano più che completarsi, e sia perché Moretti ha tipiche caratteristiche da mezz’ala. Per il resto, davanti Lupoli lo vedevo come ala”.
E quindi gli ricordava che, in quanto tale, doveva anche tornare a difendere sulla fascia…
“Non occorre che lo facessi. Come tutti sapeva di doversi sacrificare per la squadra, e come tutti, se non lo avesse fatto non avrebbe giocato”.
Durante l’eterna rincorsa c’è stata una partita che per lei ha costituito la svolta?
“No. La serie B è un campionato lungo e occorre continuità. Non c’è una partita secca che decide una stagione, piuttosto una serie di risultati dovuta sì ad una svolta, ma di mentalità da parte nostra”.
A tutto questo ha contribuito anche il mercato di gennaio.
(E qui Castori, per l’unica volta nomina i singoli, contro un proprio caposaldo, ndr) Senza dubbio Feczesin e Calderoni.
Le ha sorpreso il giovane terzino?

“Per niente! Lo conoscevo già e sapevo che era giusto per la nostra squadra, ci voleva uno che pedalasse. Se è giovane o meno non importa. Uno è bravo o non è bravo, non guardo alla carta d’identità. Ricordo che a Piacenza avevo la squadra più giovane del campionato, con ben 8 under. Sono stato esonerato dopo 4 sconfitte che in un torneo da 42 gare ci potevano stare. Forse la società non credeva in quel progetto e ora ne sta pagando le conseguenze”.
Di Feczesin, invece, cosa ci dice?
“Un ragazzo d’oro. Me ne parlò molto bene Viviano (portiere del Bologna, allenato da Castori a Cesena, ndr), oltre che Iachini. Anche se, in verità, in prima battuta avevamo puntato Papa Waigo”.
Uno dei tanti ragazzi che la ricordano come un secondo padre.
“Credo che sia semplice riconoscenza per averlo saputo valorizzare”.
Anche se la gente magari avrebbe preferito un attaccante da qualche gol in più…
“Feczesin ha fatto 8 gol in 18 gare, non pochi. Senza dimenticare quello che faceva per la squadra”.
Da gennaio in poi, tanti risultati buoni e molte partite giocate alla grande, intervallate da qualche periodo negativo.
“Ricordo tra le partite giocate bene quella con l’Atalanta. Secondo me è stato un pareggio rubato, per il gioco espresso avremmo meritato la vittoria. Per il periodo nero, la continuità di risultati è stata interrotta per colpa della sfortuna: tutti quei rinvii ci hanno costretto a giocare 6 gare in due settimane. E quando giochi così spesso aumenta la stanchezza e di conseguenza gli infortuni. Ecco perché ci stava perdere tre partite di fila”.
Da tifoso conosceva già la piazza di Ascoli. Ma da allenatore se la immaginava così calorosa nei suoi confronti?
“Evidentemente mi ha apprezzato per quello che sono: io sono così come mi vedete, io non so fingere. Sono stato me stesso con tutta la naturalezza che ho. E sono convinto che il tifoso non è stupido, e ha premiato la mia coerenza e il mio continuo impegno per questi colori”.
Sannino, ex del Varese, in più di un’occasione l’ha designata come uno dei maestri di tattica e il migliore trainer della serie cadetta. Ma lei è anche uno sanguigno, alla Mazzone per intenderci. Come fa a coniugare i due aspetti così importanti quanto diversi?
“Con otto anni di categoria alle spalle e oltre 550 panchine tra i professionisti niente si improvvisa. Anche se molti, più fortunati di me, hanno subito l’opportunità di sedersi su panchine illustri senza aver fatto esperienza, resto della convinzione che la gavetta è una palestra indispensabile. E alla fine devi essere bravo a saper fare di tutto. Il bagaglio di ognuno è dato anche dal proprio vissuto”.
E in questo anno ad Ascoli cosa ha imparato?
“Che qui c’è tanta fame di calcio e si può lavorare bene”.
Quindi può anche restarci a lungo?
“Io sono disposto, ma prima devono esserci i risultati”.
Cosa si aspetta dalla prossima stagione?
“Non faccio proclami, né slogan. Tutto dipende dalla caratura tecnica della squadra che avrò a disposizione. Bisogna tenere i piedi per terra e non creare facili illusioni. L’importante è dare soddisfazione alla gente, giocare bene e con impegno. Chiedo sempre di uscire dal campo dopo aver dato tutto”.
Di Donato, dopo Ascoli-Triestina, svelò il patto di gennaio che propose nello spogliatoio: chi si arrendeva a ciò che succedeva intorno era fuori. Se lo ricorda?
“In realtà è un discorso nato prima. In certi casi bisogna contare sugli uomini prima che sui giocatori. In quel momento era inutile creare allarmi all’interno del gruppo o piangersi addosso, solo il lavoro avrebbe portato i risultati. Perciò, chi era disposto a remare sarebbe rimasto”.
E lui, da buon condottiero ha dato l’esempio. Chissà se avrà remato anche lì in Sardegna, tanto per non perdere il ritmo”.


Copyright © 2023 Riviera Oggi, riproduzione riservata.